Madre soffoca la figlia di 3 mesi in ospedale: la verità dietro una tragedia evitata l'ergastolo
La tragica vicenda di Giuseppe Difonzo, un uomo di 29 anni originario di Altamura, ha riacceso il dibattito pubblico dopo la recente sentenza della Corte di Cassazione. Questa ha confermato una condanna di 29 anni di reclusione per l’omicidio volontario della sua figlia di soli tre mesi. Un caso che ha suscitato sconcerto e indignazione, segnato da un lungo iter giudiziario durato oltre nove anni, tra appelli e revisioni.
Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016, Difonzo si trovava nell’ospedale pediatrico ‘Giovanni XXIII’ di Bari, dove la piccola era ricoverata per gravi crisi respiratorie. Le indagini hanno rivelato che queste crisi erano state provocate dallo stesso padre, che in passato aveva tentato di soffocare la figlia in due occasioni: a novembre 2015 e a gennaio 2016. Nonostante i tentativi di difesa, che hanno invocato la “sindrome di Munchausen per procura”, i giudici hanno ritenuto che il comportamento di Difonzo fosse motivato da una vera e propria volontà di liberarsi di un “peso” percepito come insopportabile.
Nei suoi tre brevi mesi di vita, la bambina aveva trascorso oltre 60 giorni in ospedale, un luogo che avrebbe dovuto essere di cura e protezione, ma che si è trasformato in teatro di una tragedia inimmaginabile. I giudici hanno evidenziato come Difonzo considerasse la figlia “ingombrante e scomoda”, un ostacolo alle sue aspirazioni personali. La nascita della bambina lo costringeva ad affrontare responsabilità che fino a quel momento erano state estranee alla sua vita.
La difesa di Difonzo ha tentato di giustificare le sue azioni attraverso la teoria della sindrome di Munchausen per procura, sostenendo che il padre agisse per attirare attenzione. Tuttavia, i pubblici ministeri hanno rigettato questa interpretazione, affermando che l’uomo non desiderava essere padre e che le sue azioni derivavano da un rifiuto totale delle responsabilità genitoriali.
La sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito l’assenza di prove sufficienti per sostenere che Difonzo agisse per un bisogno di attenzione. Al contrario, i giudici hanno sottolineato come il suo comportamento fosse il risultato di una profonda crisi personale, in cui la presenza della figlia rappresentava un impedimento alla sua libertà.
Questa sentenza non segna solo la conclusione di un lungo iter giudiziario, ma riaccende il dibattito sulla salute mentale dei genitori e sulle responsabilità sociali e istituzionali nella protezione dei bambini. La storia di Difonzo è solo una delle tante che evidenziano le fragilità legate alla genitorialità, specialmente in contesti dove la violenza e il rifiuto delle responsabilità possono portare a conseguenze devastanti.
Il caso di Giuseppe Difonzo ci ricorda che dietro ogni tragedia ci sono storie complesse che meritano di essere comprese. Nonostante la gravità delle sue azioni, la sentenza finale offre uno spaccato della società in cui viviamo, dove le fragilità umane si intrecciano con la mancanza di supporto e comprensione da parte delle istituzioni. La figura del genitore, carica di responsabilità e aspettative, può diventare terreno fertile per conflitti interiori che, se non affrontati, possono sfociare in atti estremi e irreparabili.